
Una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Neuroscience ha rivelato che l’altitudine a cui viviamo potrebbe influenzare il modo in cui elaboriamo le emozioni. Secondo lo studio, le persone che vivono a quote elevate mostrano una minore reattività ai volti felici, il che potrebbe spiegare tassi più alti di depressione e ansia nelle regioni montuose.
Lo studio: come è stata analizzata l’influenza dell’altitudine
Per comprendere meglio questo fenomeno, i ricercatori hanno analizzato due gruppi di giovani adulti: il primo residente a 3.658 metri di altitudine in Tibet e il secondo a soli 52 metri di altitudine a Pechino. I partecipanti hanno svolto un compito che richiedeva loro di identificare il genere di volti con espressioni felici, arrabbiate e neutre, mentre la loro attività cerebrale veniva monitorata tramite elettroencefalografia (EEG).
Risultati sorprendenti: reazioni più lente ed elaborazione alterata
I risultati hanno mostrato che, sebbene entrambi i gruppi abbiano eseguito il compito con la stessa accuratezza, i partecipanti ad alta quota hanno impiegato più tempo per rispondere. Inoltre, le onde cerebrali hanno rivelato un’ampiezza inferiore in due componenti chiave: P1, associata all’attenzione visiva precoce, e N170, legata alla codifica facciale strutturale.
Uno degli aspetti più interessanti è che i partecipanti ad alta quota hanno mostrato una minore predisposizione positiva nell’elaborazione dei volti felici. Questo significa che il loro cervello non rispondeva con la stessa intensità ai segnali positivi rispetto a chi vive a bassa quota.
Un legame con la salute mentale?
Questa scoperta potrebbe spiegare perché nelle regioni montuose si riscontrano tassi più elevati di depressione e ansia. La ridotta sensibilità ai segnali positivi potrebbe portare a una visione emotiva più negativa della realtà.
Studi precedenti avevano già evidenziato come l’ipossia (bassi livelli di ossigeno) a quote elevate possa influenzare i lobi frontali e temporali del cervello, fondamentali per la regolazione emotiva e le interazioni sociali.
Prospettive future: nuove ricerche necessarie
Nonostante questi risultati, gli autori dello studio riconoscono alcune limitazioni. Ad esempio, non hanno misurato direttamente la depressione o l’ansia nei partecipanti, quindi il legame tra alterazione dell’attività cerebrale e disturbi psicologici rimane indiretto.
Ulteriori ricerche saranno necessarie per approfondire gli effetti a lungo termine sulle persone che si trasferiscono a quote elevate e per individuare eventuali strategie di adattamento che possano mitigare questi cambiamenti neurologici.