
In un mondo in cui la neurodivergenza è ancora troppo spesso letta attraverso le lenti della patologia e della correzione, la cultura Māori offre un’alternativa illuminante. Il termine Takiwātanga, coniato dal linguista ed educatore Māori Keri Opai, si traduce come “nel suo tempo e nel suo spazio”. Una definizione poetica ma concreta, che invita a osservare l’autismo non come un disturbo, ma come una forma unica di esistenza.
Una lingua che cura
Takiwātanga nasce nell’ambito di un glossario creato per portare la lingua Māori nei settori della salute mentale e delle disabilità. Non si tratta soltanto di una questione linguistica, ma di un atto culturale e politico. Dare un nome diverso a qualcosa significa darle un nuovo significato, e nel caso di Takiwātanga, significa anche offrire uno sguardo privo di giudizio, intriso di rispetto e dignità.
Aroha e Manaaki: amore e accoglienza
La visione Māori dell’autismo si radica in due concetti centrali della loro cultura: aroha, ovvero amore profondo e compassionevole, e manaaki, che significa cura, sostegno e accoglienza. Il diverso non è qualcosa da correggere, ma da ascoltare. L’individuo non è isolato, ma parte di una comunità che si prende cura. Questa visione apre la strada a un modello educativo e sociale più inclusivo, basato sulla relazione e non sulla performance.
Una prospettiva per il futuro
Takiwātanga è un invito a rallentare, a osservare senza etichette, a riconoscere che ogni persona ha un proprio ritmo e un proprio modo di abitare il mondo. In un’epoca in cui si parla sempre più di neurodiversità, il termine Māori può diventare una chiave di lettura potente anche per le nostre società: non adattare la persona al sistema, ma il sistema alla persona.
In questo termine c’è un messaggio universale: ogni esistenza merita di essere riconosciuta e accolta, esattamente com’è.
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