La luna Io potrebbe avere una superficie piena di dune formate a seguito delle interazioni tra colate laviche e anidride solforosa. Il nuovo studio della Rutgers University potrebbe essere in grado di spiegare come si formano queste dune in un ambiente freddo e ventoso come quello sulla luna di Giove. “Il nostro studio indica la possibilità che Io sia un nuovo ‘mondo di dune’“, ha affermato George McDonald, un ricercatore post-dottorato presso il Dipartimento di Scienze della Terra e Planetarie della Rutgers University.
La nuova ricerca si basa su una analoga precedente che ha esaminato i processi fisici dei movimenti dei grani e le immagini della navicella Galileo. La missione ha raccolto molti dati sull’attività vulcanica su Io, una luna dove il vulcanismo è così intenso che i vulcani alterano ripetutamente la superficie.
È per questo motivo che Io ha una superficie ricoperta da una miscela di colate laviche nere solidificate e sabbia, oltre a colate laviche “effusive” e “neve” di anidride solforosa.
La ricerca
Con l’aiuto di equazioni matematiche, gli scienziati hanno simulato le forze che agiscono su un singolo granello di basalto o ghiaccio e ne hanno calcolato il percorso.
L’indagine ha portato alla conclusione che quando la lava scorre nell’anidride solforosa sulla superficie della luna, il composto ha una densità e una velocità sufficienti per spostare i grani attraverso la luna. Questo fenomeno può consentire la formazione di strutture su larga scala, come le dune.
Dopo aver determinato il meccanismo di formazione, il team ha esaminato le immagini di Io catturate dalla navicella spaziale della NASA e ha notato che le creste e le relazioni tra altezza e larghezza tra loro sono coerenti con le tendenze delle dune osservate sulla Terra.
Per McDonald lo “studio ha mostrato che gli ambienti in cui si trovano le dune sono notevolmente più vari rispetto ai classici e infiniti paesaggi desertici nelle regioni della Terra“. “Opere come questa ci permettono di capire come funziona l’Universo“, ha concluso Lujendra Ojha, coautrice dello studio, pubblicato questo mese su Nature Communications.