I frammenti di microplastica ormai si possono trovare ovunque e questo significa anche all’interno dei siti archeologici. Ormai i ritrovamenti “contaminati” da queste particelle sono comuni. L’ultimo esempio è quello di un sito di York in Inghilterra dove 16 tipologie diverse di frammenti sono stati trovati tra le rovine. Non si parla di un sito a cielo aperto, bensì di un qualcosa che si trova a 7 metri di profondità, a sottolineare che questo tipo di inquinamento sia intrinsecamente collegato al ciclo dell’acqua.
La microplastica nell’archeologia
Perché i frammenti di microplastica dovrebbero essere un problema per certi ritrovamenti? Il problema di fatto non è specifico delle rovine in sé, ma quando ci sono resti organici preservati. L’arrivo di questi frammenti può dare vita a fenomeni che vanno a danneggiare i tessuti rimasti. Si tratta di una minaccia legata alla chimica.
Le parole dell’archeologo David Jennigs della York Archaeology: “La presenza di microplastiche può cambiare e cambierà la chimica del suolo, introducendo potenzialmente elementi che causeranno la decomposizione dei resti organici. Se così fosse, preservare l’archeologia in situ potrebbe non essere più appropriato. Consideriamo le microplastiche un fenomeno molto moderno, poiché se ne sente parlare veramente solo da 20 anni, quando il professor Richard Thompson rivelò nel 2004 che erano diffuse nei nostri mari a partire dagli anni ’60 con il boom del dopoguerra nella produzione di plastica.”
Come detto, l’inquinamento da microplastica è legato al ciclo dell’acqua e all’acqua in sé. In questo caso si ipotizza che i frammenti siano finiti lì a causa di un fiume vicino al sito archeologico, ma anche alla presenza di condutture idriche rotte.